giovedì 26 novembre 2009

mercoledì 25 novembre 2009

Rolling Stone Silvio: how does it feel, to be on your own, with no direction home



Ci siamo arrivati. C'è voluto un pò, è stata una strada in salita, sono passati molti anni, ma alla fine ce l'abbiamo fatta a far diventare il Berlusca una protoicona da alternativi ricchi; e pensare che c'era chi lo spacciava per una favoletta da poveri ignoranti, per una farsa circense davvero cheap, una festa della spuntatura finita al governo..e invece abbiamo trovato i famosi 56milioni di italiani desaparecidi dalle nostre statistiche personali: "hai votato Berlusconi?" "Ah io no, sei matto? E tu?" "Ma figurati" "E allora chi l'avrà votato?????"
Eccoli, trovati. Non parlo della redazione ovviamente, ma del target a cui si rivolge un'immagine del genere, delle persone che andranno in edicola pensando di comprare una spiritosa, geniale interpretazione del nostro chiaccherato premier, una smartissima operazione artistica come coso, lì, dai quello di Obama.
Ecco, quello di Obama, per gli amici Obey, che fra parentesi è conosciutissimo da anni per altre cose, ha sicuramente ha creato una linea iconografica precisa ed efficace, tanto che in rete ci sono milioni di imitazioni (tra cui una dell'Observer con David Cameron), però non credo fosse pronto a trovare una sua imitazione sulla copertina di uno dei giornali musicali più popolari del mondo (anche se non in Italia passatemi l'espressione), un giornale al quale, in teoria, non interesserebbe affatto publicizzare il faccione di un personaggio che da quasi vent'anni devasta il nostro paese e le nostre forze monetarie, lavorative e mentali, ci sputtana senza tregua, ci priva delle libertà fondamentali previste dalla costituzione, ecco no, non credo lo immaginasse neanche nei suoi sogni più bagnati a 16bit.
Perchè il punto è proprio il messaggio che traspare. che non è affatto sarcastico, artistic-denigratorio, di denuncia, una vignetta umoristica, un arazzo critico, una grassa risata che ci facciamo su perchè "Silvio è rock", questo non fa ridere, mai.
Senza doversi mettere un passamontagna impugnando una p38, senza fare gli ex sessantottini o gli ideologi da centro sociale, l'Italia è così evidentemente un paese allo sbando e sopratutto la generazione che legge Rolling Stone talmente nella merda che davvero non riesco a vederci un invito all'ironia; l'ironia l'abbiamo persa tanto tempo fa: prima che la Guzzanti impazzisse, che i nostri contratti venissero stracciati, prima di dover pagare le bollette con due mesi di mora perchè non arriviamo a fine mese e non sappiamo neanche se a sessantanni ci troveremo per strada senza pensione, prima di non poter pensare a riprodurci perchè dovremmo nutrire i nostri figli coi gerani del balcone.
Tra l'altro l'immagine è anche poco chiara: il direttore Carlo Antonelli scende dalle nuvole con una carrucola per spiegarci che nessuno, davvero nessuno, ha capito il senso della cosa, che Berlusconi è più rock di Jackson perchè Villa Certosa è proprio un villone della madonna, che si dopa più di Kurt Cobain, che le sue scorribande sono puro rock'n'roll, allora mi vengono in mente molte cose, la prima -lapalissiana- è che probabilmente di musica non interessa proprio parlare (ma FORSE lo sapevate già), che le vendite sono probabilmente precipitate, e che se volete fare della critica sociale forse dovreste spedire i vostri curriculum altrove, però in fretta, perchè ripeto, qui non ride nessuno.
Va bene tutto, compresa la copertina "di rottura" con Beth Ditto fotografata da Toscani, un altro che fra ville e cavalli ha perso la bussola da mò, però non facciamo gli alterna di paese che ironizzano sui grandi temi, acchiappano personaggi "equivoci e intriganti, sovversivi", qui di sovversivo c'è solo il fatto che dovremmo essere in piazza coi forconi da dieci anni e invece siamo ancora li, in edicola, a comprare Rolling Stone col Berlusca in copertina.
Forse il vecchio Jorge aveva ragione, il riso è proprio delle scimmie, a noi compete poco ultimamente.

domenica 22 novembre 2009

L'arazzo 2.0: Heaven can wait, hell too

o











La vera notizia, per quanto mi riguarda, è che Beck è finalmente riuscito ad andare dal barbiere per tagliare via quella foresta di doppie punte che lo faceva sembrare uno dei Soul-junk ed è tornato agli antichi spledori di foulards, ciambelline croccanti ed accette che rincorrono fattorini di DHL su campi da calcio;
L'altra è che la bella abitudine di spiegare le cose alla gente con le immagini non è andata affatto persa: ehi amici, è il momento dell'arazzo 2.0.
Pensate ad un salame al cioccolato illustrato, uno spiralone da svoglere con le mani scoprendo all'interno delle sue volute mille scene di vita quotidiana, protagonisti bizzarri per ordinarie abitudini, citazioni affettuose da altre situazioni figurative ci fanno trovare Charlotte al bancone di un Nighthawks troppo pettinato o durante l'ace decisivo ad una partita domenicale dei Tenenbaum, ad un surreale pijama party di trentenni ad Aspen, a costruire gufi di verdure con una bella famigliola in Michigan o con un bebè perfetto in braccio, arrivato da chissà dove, come una madonna di abercombie&fitch troppo castana.
Intorno a lei, e al povero Beck che paga la sua rinnovata avvenenza con un minimo sindacale di apparizioni nel video, perfette scene da una eventuale Loser senza brufoli, personaggi improbabili impegnati in una morte da Darwin Awards o perseguitati da oggetti permalosi, che comprano fucili nel tempo libero e si fanno arrestare vestiti da spongebob, ragazze di buona famiglia vanno al ballo con un robot per cavaliere, confondendo genitori in veletta pronti ad indovinare chi viene a cena, mostri ed umani confusi nei vicoli della città subiscono scherzetti dalla realtà gassata che li circonda, in un mix di scherzi feroci, paure da anno mille e humour da adolescenza coatta in una comune californiana.
Un bellissimo ritorno, per la gentile Charlotte che così si candida a nemesi ufficiale del modellino paltrowiano femminile intellettual-fastidioso-30something-catalogoamericanappareloveraged- in pura balsa, e per il caro vecchio isterico Beck, spero che dal barbiere abbia lasciato anche la sua tessera di Scientology e quei beattoni tristi e senza charme, ma questa marcetta sapientina mi dice che dev'essere così.

mercoledì 18 novembre 2009

The Kingdom- Niguarda riget





E' quasi un mese che soffro di vertigini soggettive, come le chiama il mio medico, inutile dire che gli ho già domandato se per caso significa un imminente ingresso nel grande circo della malattia mentale ma no, non sembra sia previsto per l'imminente futuro; comunque sia le mie frequentazioni al Niguarda, sulle quali avevo già abbondantemente delirato in passato, si moltiplicano nel giro di una decina di giorni, ma l'esperienza più significativa se l' aggiudica il pronto soccorso,
che non è più appena entrati a sinistra ma in fondo a un vialetto buio come la foresta di Nottingham alle tre di notte e completamente ghiacciato, illuminato poco e male da faretti al tungsteno, proprio una bella introduzione visiva. Al bancone trovo un giovane infermiere carino che sorride a tutti mentre il cordless di reparto gli squilla incessantemente nella tasca del camice: allunga un bavaglione alle sciure novantenni che vomitano, sgrida gli anziani troppo insistenti che urlano di avere "le palle gonfissime" e consiglia ad una ragazza bulgara un centro di medicazione gratuito e poco attento ai permessi di soggiorno dove portare il suo bambino con quaranta di febbre, a un certo punto infila il suo borsello da uomo anni settanta e se ne va. In fila con me, sulle sedie verdi a guardare le venature azzurre del linoleum ospedaliero, ci sono molte persone, tra cui una giovane milanese in tuta che si misura la febbre con il termometro elettronico ogli tre per due e intanto telefona alla mamma, due fratelli tunisini con mascherina che mi raccontano di come nel cantiere per cui lavorano un loro amico sia finito all'ospedale con una botta in testa di sedici chili di carico perchè era senza casco protettivo..e di come questa tosse che li scuote tanto da farli cadere dalla sedia sia niente in confronto, "lui non si muoveva più, noi abbiamo solo l'influenza", dice uno dei due mentre accarezza la schiena del fratello per tranquillizzarlo, ci salutiamo con un in bocca al lupo, è il mio turno.
In fondo a destra c'è una stanza enorme, divisa da tendaggi verdi che creano piccoli separè nell'obbligata atmosfera zero privacy da reparto emergenze; mi accomodo sul lettino mentre intorno a me una ragazza ansima con un attacco di panico da manuale, alla mia sinistra un settantenne che urla com un pazzo mentre lo intubano, a destra una donna che ha appena avuto un aborto spontaneo, ormai lo sappiamo tutti fra le tende verdi.
L'infermiera si lamenta del suo turno da 18 ore, "signorina sono uscita di qui alle 4, poi ho dormito fino alle sei e dalle otto sono di nuovo in servizio, non c'ho più l'età", in effetti l'attività è frenetica, ma nessuno manifesta comportamenti stressati e offensivi, sembrano pazienti e abituati, abituati a vedere di peggio, spesso.
La TAC è cosa di pochi minuti, anche se ogni volta che ne faccio una mi ritrovo sul set di una pellicola futuribile, discuto un attimo col tecnico sull'eventualità di un suo cambio tricologico: "se mi ossigeno magari mi notano, come fai a farli così?"
Tiro fuori il giornale e mi siedo nella hall, dove continuano ad arrivare personaggi mascherati con sospetta suina, vecchini fratturati e familiari preoccupati.
Verso mezzanotte mi rilasciano i referti e faccio in tempo a fumare una sigaretta riflessiva mentre aspetto il taxi, e penso che questa giornata assomigli molto a quelle che ho vissuto diversi anni fa: le persone si assembrano agitate sui sedili del pronto soccorso, i medici e gli infermieri si sbattono come polipi per accertare e curare, alcuni non ti guardano neanche, ma dopo un turno doppio da 12 ore vorrei vedere voi, i corridoi sanno sempre di purè e disinfettante, con quella nota di etere che non guasta mai, e non c'è davvero modo di mediare il panico di chi sta veramente male, o pensa di solo di morire, è come una corda molto tesa che vibra nell'aria e non c'è verso di fermarla, e mentre tutto intorno sembra pulito ma vecchio, sterile e fiducioso, mentre la gente urla per un foruncolo testicolare o per la metastasi, tutto è uguale, il formicaio non si ferma mai.
Quelli che si muovono siamo noi, pur sbattuti da un bancone all'altro, con o senza patologie gravi, sfrecciamo nei corridoi fra gli anziani col bastone e i ventenni disperati, gli orzaioli le insufficienze renali il giradito le vertigini le poltrone rotanti e i bavagli per il vomito, siamo sempre noi, avanti e indietro lungo la linea del tempo e dell'età, insicuri di questa dimensione fisica e corporea, come di mille altre cose, noi che per fortuna possiamo preoccuparci gratis, o quasi.

lunedì 2 novembre 2009

Edward Hopper- i believe in symmetry




Giovedì sera ero a Palazzo Reale, non per fare un'escursione ai massimi vertici della gerontofilia come si sarebbe potutro sospettare, data l'esclusiva presenza di over 65 nel piazzale antistante e alla cassa: decine di fulgidi e benestanti anziani milanesi ricoperti di vari strati di pelliccioni che si trascinavano appoggiati ai propri girelli lasciando nell'aria un delizioso effluvio di violetta e lavanda, se non fosse davvero troppo bizzarro penserei ad un asso nella manica giocato dal marketing di Arthemisia per riportarci nei roaring twenties Hopperiani grazie ad un demoniaco casting di eleganti ottuagenari, coniando per l'occasione uno slogan agghiaccante del tipo "dopo ATMosfera.. D-Hopp(l)er".
Schivando nuvole di capelli azzurrini acchiappo il biglietto e muovendomi molto lentamente raggiungo la prima sezione dove si trovano le opere del periodo parigino, un viaggio che Hopper fece da studente, e questi suoi primi tentativi lo rivelano visto che mancano i colori, i verdi e i gialli che conosciamo bene, tutto sembra sbiadito per qualche mese; seguendo la cronologia vediamo come la primavera parigina darà una bella spinta anche alle cromie e in mezzo al beige di qualche rue vediamo spuntare un albero smeraldo, l'inizio di uno studio della luce che culmina in Morning Sun; questo percorso di colore viene bruscamente interrotto da decine di litografie e schizzi a matita, grazie ai quali ci accorgiamo che quello per i contrasti è un amore vero, anche senza la luce del sole che taglia le cose a metà come una mannaia, qui sono il bianco e il nero a spingersi a vicenda sul piccolo foglio di carta, purtroppo non abbastanza forte da farsi notare davero; mischiare così tanto lo spirito cromatico che conosciamo con quello grigio e meno noto non mi da un quadro completo della produzione artistica di Hopper, anzi lo sminuisce e ci confonde, che senso ha esporre 4 schizzi a carboncino di Benzina senza portare anche l'originale? Volevano mettere l'accento sull'Hopper che nessuno vede oppure non avendo abbastanza opere in concessione hanno riempito i buchi con le cose minori? Nel catalogo sono pubblicate anche immagini che non vedremo mai per completezza antologica dell'artista o per far credere che saranno visibili anche nel percorso della mostra?
Di certo il prezzo del biglietto valeva anche la sola vista di Morning Sun e Second Story Sunlight, che esplodono di sole illuminando la stanza come una pignatta d'oro, le donne bianche con le vene azzurrine, tranquille sul loro letto o sul balcone, aspettano tranquille con la faccia a bagno nella luce, aspettano che il pittore smetta di guardarle per riprendere vita e muoversi, non molto, giusto il necessario per prendere un Martini dal mobile bar.
Meno certo è il valore di una mostra che sembra arrampicarsi sugli specchi per mancanza di materiale e sovraffollamento di gruppi con guida o cuffie con bignami sonoro, non sono certa che riempire una delle stanze con un set fotografico dove poter mimare la donna di Morning Sun sorridendo ad una telecamera con gli amici che fanno ciao sia esattamente il modo migliore di occupare spazio all'interno dell'allestimento di un'esposizione pubblicizzata a tappeto da sei mesi come l'evento che avvicinerà Hopper a tutti; in effetti ora tutti possono vederlo, peccato non possano vederlo tutto.